Giugno 2025
Per il quarto approfondimento degli Speciali TFI, ospitiamo la regista Jessica Woodworth con un’intervista dedicata alla rappresentazione delle distopie ambientali nell’audiovisivo contemporaneo.
Jessica Woodworth è una regista, sceneggiatrice e produttrice belgo-americana, conosciuta per titoli premiati come “Khadak”, “Altiplano” e “La quinta stagione”, realizzati in collaborazione con Peter Brosens. Ha presentato diversi suoi lavori alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia: con “Khadak” ha vinto il Leone d’Oro del Futuro per la migliore opera prima, e con “La quinta stagione” ha vinto invece il primo Green Drop Award, assegnato al film che ha trattato in modo più potente le questioni ambientali. È stata parte del gruppo ScriptLab Story Editing di TorinoFilmLab nel 2017 per il suo ultimo film, “Luka”, film altamente distopico girato in Sicilia che è stato presentato al Torino Film Festival.
Woodworth è ospite del Festival CinemAmbiente, che nel 2025 giunge alla sua 28ª edizione. Il Festival organizza un panel per esplorare come, negli ultimi decenni, la produzione mediale e culturale è stata caratterizzata da un incremento di contenuti distopici, dalla rappresentazione di possibili universi negativi che riflettono paure, problemi e contraddizioni del genere umano di fronte tanto alle incertezze del futuro quanto alla rielaborazione di traumi e rivolgimenti del passato. Un progetto di ricerca dell’Università Cattolica di Milano ha portato alla realizzazione dell’Atlante delle distopie mediali che intende restituire una panoramica del fenomeno sotto il profilo geografico: una cartografia in grado di evidenziare la varietà dei generi e dei linguaggi in cui si esprime la distopia e le loro connessioni e contaminazioni.
Il Festival CinemAmbiente si tiene a Torino dal 5 giugno, World Environment Day, al 10 giugno 2025. Fondato da Gaetano Capizzi nel 1998, CinemAmbiente ha l’obiettivo di presentare i migliori film e documentari ambientali a livello internazionale e contribuire, con attività che si sviluppano nel corso di tutto l’anno, alla promozione del cinema e della cultura ambientale. È uno dei membri fondatori del Green Film Network, associazione che riunisce le più importanti rassegne cinematografiche internazionali a tema ambientale, e dal 2024 è partner di TFI Torino Film Industry con EcoTalks.
L’intervista a Jessica Woodworth è stata realizzata in inglese. Per leggere la versione originale, clicca qui.
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Parlaci della tua carriera: cosa ti ha spinta verso il cinema e perché hai scelto proprio la finzione come linguaggio per raccontare le distopie?
Non avrei mai immaginato di diventare una regista di finzione: è stato dettato puramente dalla necessità. Ho avuto alcune prime esperienze nel non-fiction che sono state grandi prove per il mio carattere perché ho subito scoperto che questo approccio allo storytelling non andava bene per me. La finzione mi offriva invece un terreno dove c’è libertà creativa e non ci sono ambiguità: c’è un patto con i tuoi partner, specialmente con il tuo cast – e io lavoro molto a contatto con gli attori. Siamo sulla stessa barca e abbiamo lo stesso obiettivo, sono coinvolti nella creazione con noi. È successo in Mongolia – dove ho conosciuto Peter Brosens, il mio partner cinematografico. Stavamo entrambi girando in maniera indipendente, film non-fiction: però poi, dalla nostra sinergia e dal nostro rapporto con questo paese è nato “Khadak”, il nostro primo film di finzione. Abbiamo capito intuitivamente che quello che volevamo evocare non era qualcosa trasmettibile con statistiche o modalità di racconto tradizionali. A livello formale, volevamo usare un linguaggio coraggioso, che offrisse un’esperienza più viscerale. All’inizio eravamo impacciati: abbiamo scritto la nostra prima sceneggiatura di finzione ed era la peggiore sceneggiatura mai scritta! Aveva i peggiori dialoghi di sempre, ma sempre sempre! Ne siamo usciti ridimensionati, perché grazie a questo abbiamo capito che, se vogliamo raccogliere un po’ di denaro per quest’impresa costosa, dovevamo metterci al lavoro. Abbiamo imparato come scrivere una sceneggiatura: è stata una sfida, perché lo storytelling è basato sull’intreccio, quindi è molto difficile trasmettere e restituire in forma filmica gli in-betweens. L’ingrediente cruciale per noi è il non detto, ciò che non necessariamente è visibile. Abbiamo fatto del nostro meglio, e alla fine, abbiamo creato qualcosa molto da vicino con i mongoli – il che era cruciale per noi. Sapevamo che l’unico approccio possibile era essere molto umili in ogni momento. E questo è il modo in cui abbiamo lavorato, sempre.
Come si sviluppa il processo di scrittura? Cosa ti attira quando trovi e poi articoli una storia?
Il nostro processo creativo è sempre guidato dall’umiltà come ingrediente principale ad ogni livello: come lavori con la squadra, come cerchi momenti autentici che hanno un senso – forse non maniere teoriche, letterali o razionali, ma dopotutto il nostro mondo non è razionale. Se guardiamo agli ingredienti principali di “Khadak”, la Mongolia è un El Dorado: è una terra che ha oro, uranio, rame, carbone, ed è anche un paese affetto da serie sfide climatiche, come la desertificazione. Non è una storia da prima pagina, ma il Deserto Gobi si sta muovendo a una velocità allarmante, maggiormente verso il sud e sempre più dentro la Cina. È una storia enorme e la fonte di una delle battute cruciali del film, un dialogo tra la sciamana e il protagonista, il giovane ragazzo: “Il deserto vince sempre”. Il film non esiste senza quella battuta. Anche il titolo del film: tutti i nostri film hanno altri titoli fino alla fine della postproduzione, a volte fino alla fine del missaggio. Il titolo originario per “Khadak” era “Il colore dell’acqua” – lavoriamo sempre con elementi primi come acqua, vento, spazio, cielo. Questo titolo ha portato la storia fino a un certo punto, quando poi è stato trasceso da “Khadak”: un “khadak” è una sciarpa blu, sacra e cerimoniale che è considerata simbolo del cielo, l’ultimo giudice dell’umanità. La parola per “cielo” in mongolo è “Tengri”, e il credo è il “Tengrismo”: è molto incorporato nella storia a ogni livello e quindi aveva senso chiamarlo così. È anche bello sapere che quando annodi una khadak intorno al collo di un animale, questa gli concederà una morte naturale, non per mano d’uomo. In un certo senso, lo stesso film funziona come una sorta di khadak, come una sorta di protezione. Crediamo davvero che, anche se siamo molto impoveriti, siamo fondamentalmente esseri spirituali. Ma nella nostra società, qui in questo lato del mondo, stiamo trascurando le nostre vite interiori: siamo molto disconnessi dalla natura, quindi, guardando altrove, ci troviamo e impariamo molto. Possiamo sentire cose risvegliarsi in noi che sono in realtà dei ricordi che appartengono alla nostra specie – ci sono certe cose con cui possiamo riconnetterci. La Mongolia è stato un posto per noi in cui potevamo sentire che c’erano delle verità visibili, semplicemente perché è così piena di posti apparentemente vuoti e silenzi tremendi. In quel tipo di ambiente, sei messo di fronte ai fondamentali: chi siamo? Dove siamo? Perché, e dove stiamo andando?
Una tua quote recita, “Abbiamo bisogno di sogni per capire ciò che ci sta succedendo, e il cinema è un mezzo importante per farlo”. Che effetto pensi possa avere il cinema sulle persone e sulla realtà?
Quello che cerchiamo e speriamo di fare è far filtrare un raggio di luce in qualche angolo remoto dell’animo dello spettatore. Inaspettato. Che sveglia qualcosa, che potrebbe scatenare alcune associazioni. Non vogliamo che il pubblico esca dall’esperienza di guardare un film con qualche conclusione, non vogliamo statistiche, né alcuna risposta certa – ma vorremmo che qualcosa dentro si muovesse. Abbiamo capito da subito che questa è la strada che vogliamo seguire, e non ha fine e non è finita – o, almeno, è non finita per noi. Questo è il motivo per cui, alla fine, abbiamo creato non intenzionalmente la trilogia di film che è “Khadak” in Mongolia, “Altiplano” in Perù e “La quinta stagione” nel sud del Belgio. Sono tutti indipendenti, ma la ricerca è comune. Anche il processo: per esempio, crediamo che l’ultimissima immagine del film sia qualcosa che contiene molto di ciò a cui aspiriamo, quindi la abbiamo come una sorta di faro per il film che incarna qualcosa incredibilmente fondamentale. Lavoriamo anche per anni sul campo, cosa che è molto simile al modo in cui lavorano i documentaristi: i nostri materiali grezzi sono grezzi, dalla realtà. Altre fonti sono la musica, e la pittura, che informano il nostro lavoro e aiutano a finanziarlo. Per esempio, quando stavamo presentando i documenti per finanziare “La quinta stagione”, abbiamo sempre incluso una clip di una canzone di Gurdjieff da “Chant from a Holy Book” – un brano indescrivibile che inquadra una temperatura, un tono, un timbro: i lettori erano invitati ad ascoltarlo prima di leggere la sceneggiatura così da capire qualcosa. La musica apre alcune parte del cervello o del corpo – dunque poi immaginare più a fondo cosa stai cercando di realizzare quando ti confronti con una sceneggiatura. Perché un testo è un testo, no? È solo un mezzo per un fine. Comincia a morire nel momento in cui inizi a filmare. Abbiamo anche posizionato, costruito e finanziato “La quinta stagione” solo con una battuta, che era “L’uomo ha dimenticato di essere parte della natura”. È una frase semplice, ma porta tutto con sé. Il titolo di quel film era “Primavera silenziosa”, lo stesso titolo del testo seminale di Rachel Cason del 1962, che si occupa di pesticidi. Alla fine, la connessione con il libro era troppo forte, anche se dimostrava cosa ci accompagnava, ma ora comunichiamo in altri modi. Non sono per niente una di quei fondamentalisti che crede che bisogni restare disperatamente attaccati al filmare in 16mm o 35mm, e il cinema arthouse – siamo onesti – è per un ristretto numero di persone, il mercato è piccolo. Abbiamo nuovi strumenti di potere, che sono ovviamente lo streaming e le serie TV, e i talenti stanno gravitando verso quelle direzioni, il che è emozionante.
E i temi? Pensi che la distopia sia un tema dominante che permea il tuo storytelling?
C’è un tema distopico in tutti i nostri film, anche nel mio ultimo, “Luka”, un’interpretazione molto personale del classico “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati ma spinto a un futuro distopico dove non c’è acqua. La vento molto sferzante, i volti inariditi… questo si trascina per vent’anni di lavoro, in realtà. Perché questa è la nostra storia. Noi siamo il cambiamento climatico. È impossibile immaginare la narrazione senza questo elemento, ora, perché interessa – sicuramente i nostri figli. Ho delle bambine (non più bambine!) e si muovono nel mondo – che brucerà, che sarà affamato, che sarà assetato, che sarà testimone di enormi movimenti di persone, e questo è solo inevitabile. Ma non mi reputo una “collassologa”: non credo che stiamo inevitabilmente andando verso il collasso della civiltà industriale come la conosciamo ora, altrimenti non farei questo tale sforzo per fare il cinema. Dare questi film – sono tutti film impossibile da fare. Lo dicono tutti all’inizio, e poi, in qualche modo, come sanno tutti i registi, l’impossibile è possibile. L’amore per l’umanità che richiese – è necessariamente ottimista. È un tale sforzo collettivo e colossale da mettere insieme. E quindi sono film piccoli e arthouse con budget relativamente piccoli, e ciononostante, è uno sforzo colossale da parte di tutti, e raccogliere la volontà di ogni persona, la loro passione e le loro convinzioni, e condividere tutto per fare un film è molto emozionante. Dal momento uno, fino al portare il film sul grande schermo – è un’enorme gioia ed è veramente importante. Lo storytelling ci salverà. Ci salverà.
Che relazione vedi tra passato, presente e futuro nelle distopie?
Questi scenari di catastrofe hanno alimentato l’immaginazione dal sempre. Guardando al cinema – questo è il momento giusto per fare un altro “Metropolis”, no? E l’anno prossimo sarà il centenario. Quindi, questa cosa non è nuova, guardare a possibili cataclismi nelle storie. Dà molto piacere, è profondamente divertente e spesso di valore incredibile. Il passato, il presente e il futuro, quando guardi a questi – è la solita domanda del tempo. In molte culture, nell’Induismo, nel Buddismo, ci sono molte correnti di pensiero che guardano al tempo in maniera diversa da come facciamo noi: non è una concezione lineare del tempo, è ciclica. Ci sono fasi di creazione, e nella narrazione, guardiamo a tutti i testi, tutti i testi antichi, tutti i testi religiosi, ci dicono tutti che ci sono salite e discese. Le distopie e le visioni distopie compaiono dappertutto come avvertimenti. Non si può immaginare il nostro mondo senza queste storie. Le storie ci aiutano a processare, e ci alimentano anche, ci portano più vicini all’azione. Come sappiamo tutti, ogni giorno ci svegliamo e siamo un momento straordinaria. Siamo testimoni di cose mai successe prima, per via del matrix di forze alienanti che compone la nostra vita. Che sia la tecnologia, e tutto ciò che porterà e che ci porterà via: è un mostro di nostra creazione, perché, sfortunatamente, siamo così brillanti, e siamo così ingenui allo stesso tempo. Dunque, considerando le emergenze in cui viviamo, un’accelerazione di questi problemi – cioè, gli incendi furiosi, il vento, l’innalzamento delle acque, tutte queste cose, sono solo fatti. In un certo senso, abbiamo bisogno di storie più forti. Quindi il cinema ci offre questa cosa. Come sappiamo bene, tutti noi che amiamo il cinema, che lo consideriamo fondamentale ed essenziale: il cinema ci può muovere in altri modi. Possiamo imparare le statistiche, possiamo leggere articoli ogni giorno e sentire di essere sul pezzo – sappiamo cosa sta succedendo, e va bene; ma questi sono fatti. Ci sono parti di noi che devono essere nutrite, e il cinema ci offre questa cosa. Tutte le arti lo fanno, in generale: accedono ad altre parti dell’umano, e creano la possibilità di guardarci in modo più collettivo. Ci dicono che siamo parte di qualcosa di più grande.
Che tipo di cinema pensi sia più legato alla distopia?
Stavo pensando a film che portano questo tema, che bruciano di queste domande sull’ambiente, e il clima, e le distopie. Gli esempi a cui tengo maggiormente vengono dal passato: richiamavo dei momenti-terremoto, quelli in cui fai esperienza di un film e dici, “Questo è parte di chi sono”. Quindi, dipende molto in realtà anche dal momento di vita in cui sei e dalla tua evoluzione, ma, per me, uno è “La Jetée” di Chris Marker. Poi, quando ho visto “Koyaanisqatsi” di Godfrey Reggio su un grande schermo ho pensato, “Oh mio Dio”. Ho molto apprezzato anche “The Road” di John Hillcoat, basato sul romanzo di Cormac McCarthy – e sono grande ammiratrice dei suoi scritti. “The Road”, è interessante, lo abbiamo anche usato per creare “La quinta stagione”, perché lo abbiamo posizionato come un possibile prequel di “The Road”. Questi sono tutti film più vecchi. Oggi, invece, c’è una tendenza a favorire storia, storia, storia, e i fatti. Intrecci, risoluzioni, e messaggi. Ma questa è una cosa con cui abbiamo alcuni problemi: i film hanno tutti qualcosa che può essere interpretato come un messaggio, ma non è la loro spinta fondamentale. Mi emoziona molto di più la forma e cosa potrebbe risvegliare in noi. Quindi, penso che dovremmo guardare oltre nelle video installazioni, dove si vedono cose che sono multidimensionali. Tra l’altro, tutti noi che portiamo delle storie al pubblico, dobbiamo essere di larghe vedute, ampi, anche hi-tech, perché quello che vogliamo veramente è raggiungere un pubblico più giovane. Per film più recenti… “The Brutalist” di Brady Corbet è un film molto audace a livello formale, e personalmente apprezzo molto il suono e il sonoro, che sono una forza assolutamente colossale che può portare in una storia apparentemente benigna un senso di timore, di meraviglia, eccetera. Penso che dobbiamo davvero avere cura di tutte le dimensioni del fare un film, e supportare a fondo vie alternative di narrazione che abbracciano il cinema nella sua forma più piena. Siamo incoraggiati a scrivere in maniere molto attente alla storia, perché ci sono molte storie urgenti da raccontare, ma la forma non dovrebbe essere trascurata. Dobbiamo aiutare a creare degli spazi per delle storie raccontate in maniere alternative: sembra ingenuo, ma i momenti più esaltanti e estatici che ho vissuto davanti a uno schermo sono sempre stati con film che sono coraggiosi da un punto di vista formale, ognuno in modi inaspettati. Questo è quello che abbiamo cercato di fare per due decenni con i nostri molti film, e che continueremo a fare, anche se il mercato spinge contro di noi.
Parlando dell’industria – conosci già Torino perché sei stata parte di TorinoFilmLab qualche anno fa. Questa è la prima volta che partecipi al Festival CinemAmbiente?
Sì, è la prima volta! Sono molto emozionata e onorata.
E hai preso parte allo sviluppo dell’Atlante delle distopie, il progetto dell’Università Cattolica?
È la mia prima esposizione alla ricerca – il che è probabilmente un bene perché, così, potrò pensare a domande molto basiche! È tutto legato a ciò c a cui mi sono dedicata, c’è molto terreno comune. Sarà emozionante, e imparerò tutto quello che posso prima di intraprendere questa conversazione. Poi, sapete: tanti anni fa, ho studiato all’Università Cattolica di Milano per un anno, Scienze Politche e Storia dell’Arte.
Da un punto di vista industry, secondo te quanto l’industria è veramente consapevole e operativa in tema di crisi climatica? C’è il rischio che green set e pratiche di sostenibilità ambientale siano solo delle facciate retoriche che portano poca sostanza?
No, non penso. È qualcosa che si sta già manifestando, siamo obbligati legalmente a fare dei report, sicuramente in Belgio, e so anche che in Francia sono molto severi e impegnati. Ci requisiti di nuove strumentazioni che devono essere implementate in questa prima generazione – ma poi sarà tutto automatico. Solo il costo di muovere le troupe è esorbitante, è ridicolo, e ci sono molti modi di farlo in maniera più efficace ed efficiente. Ogni persona con cui ho lavorato sui film è aperta a questa cosa, quindi le maestranze sono pronte a partire, specialmente se lavori su storie che sono impegnate, che tocca queste cose. Dovrebbe essere inizialmente un obbligo di legge, e poi diventerà automatico, ma sta funzionando. Sono molto ottimista. E poi, dal punto di vista dello storytelling, ci sono molte iniziative che si occupano di questa cosa, una è GreenLab di TorinoFilmLab – strade che facilitano organicamente l’introduzione nelle storie delle questioni climatiche, perché non ci sono storie che possono essere raccontate senza queste questioni, veramente, almeno pe quanto concerne le storie contemporanee. Dovrebbero esserci molteplici organizzazioni che educano le persone nel settore a migliorare i loro sforzi, perché questi hanno e avranno un effetto spartiacque nel corso del tempo per le nuove generazioni. Tutte queste nuove generazioni guardano a noi più grandi e sono senza parole, dicono, “Cosa avete fatto?”. Quindi, l’unica cosa che possiamo fare è consegnare storie intelligenti che portano davvero con loro la realtà di cosa stiamo affrontando. Questo è il minimo: è una questione di rispetto, in verità.
Questo ci porta alla nostra ultima domanda: c’è qualcosa che vorresti lasciare alla nuova generazione di cineasti?
Le loro storie sono le nostre storie. Siate in allerta, abbiate cura del confronto con la bellezza – ma bellezza nel suo sento più ampio e più profondo, non estetico. La bellezza del fatto che stiamo tutti vivendo una storia.